C’era una volta… un’idea molto semplice, che più o meno suonava così: il parlamento fa le leggi, il governo governa e i giudici giudicano. Perché questa grandiosa idea ha perso la sua grandiosità e, ahinoi, anche la sua realtà?
Con ordine.
Il principio della divisione dei poteri, formulato dal filosofo e giurista francese Montesquieu nel suo opera “De l’Esprit des Lois” (Sullo spirito delle leggi) pubblicata nel 1748, è un concetto fondamentale nel campo del diritto e della scienza politica, ed è alla base dell’organizzazione di molti sistemi governativi moderni. Montesquieu propone una separazione delle funzioni statali in tre distinti poteri: legislativo, esecutivo e giudiziario, attribuendoli a differenti organi o entità per prevenire abusi e garantire la libertà dei cittadini. Ecco un dettaglio di ciascun potere:
- Poteri Legislativo: è il potere di fare le leggi, di modificarle o di abolirle. In molti stati moderni, questo potere è esercitato dal parlamento, un’assemblea di rappresentanti eletti dal popolo. Il potere legislativo ha il compito di definire le regole che governano una società, proteggendo i diritti e le libertà dei cittadini e promuovendo il bene comune.
- Potere Esecutivo: è il potere di applicare e far rispettare le leggi, nonché di gestire gli affari dello stato in conformità con le leggi vigenti. Questo potere è generalmente detenuto dal governo, che è guidato da un presidente o un primo ministro. L’esecutivo ha anche il compito di formulare e implementare politiche pubbliche, e di garantire la sicurezza e l’ordine pubblico.
- Potere Giudiziario: è il potere di interpretare le leggi e di giudicare coloro che non le rispettano, garantendo così il rispetto del quadro normativo e la giustizia. Il potere giudiziario è indipendente dagli altri due poteri e viene esercitato dalle corti e dai giudici, che hanno il compito di risolvere le dispute legali e di garantire che le leggi siano applicate in modo equo e imparziale.
Torniamo ai giorni nostri.
Durante un’intervista concessa al Corriere della Sera, il vicepresidente del Consiglio superiore della Magistratura, Fabio Pinelli, ha affrontato nuovamente la questione dell’ingerenza dei giudici nelle competenze del Parlamento, sottolineando alcune criticità e punti importanti, ovvero:
- Il crescente onere dei magistrati nel risolvere molti conflitti interni alla società, con la perdita progressiva degli strumenti tradizionali di mediazione, quali partiti e sindacati;
- L’opportunità per l’Associazione Nazionale Magistrati di offrire un supporto tecnico e specialistico in merito alle leggi in fase di approvazione, senza però sovrapporsi alle prerogative del Parlamento;
- L’urgenza di un mutuo riconoscimento delle rispettive prerogative da parte di tutti gli organi statali, per prevenire una potenziale escalation del conflitto tra le sfere politica e giudiziaria, rispettando sia la volontà del popolo rappresentata dal Parlamento, sia l’autonomia e l’indipendenza dei magistrati.
Questi argomenti mettono in luce la complessa dinamica tra la tutela giudiziaria dei diritti fondamentali e i diritti della politica in merito a questioni di grande rilevanza attuale, come l’immigrazione e le intercettazioni, senza tralasciare altri temi caldi come l’abuso d’ufficio e la separazione delle carriere. Il dibattito politico attuale oscilla tra due visioni contrastanti: una che rievoca un approccio ottocentesco, vedendo il giudice come un mero esecutore della legge, e un’altra che, in linea con le costituzioni contemporanee, lo considera un interprete chiamato a mettere in pratica i valori costituzionali.
La Costituzione italiana, tuttavia, delinea chiaramente le funzioni assegnate agli organi giudiziari e i compiti di altri organi statali dotati di diversi poteri. Tra l’altro, sottolinea l’art. 106, il nostro ordinamento prevede una magistratura professionale le cui decisioni devono essere comprensibili e non necessariamente sostenute dal consenso popolare.
“Comprensibili”, che parola magica! Appunto, una magia che oggi (e non solo oggi) i giudici non riescono più a compiere.
In questo contesto, era atteso che la Corte di Cassazione assicurasse un’interpretazione uniforme della legge, promuovendo la prevedibilità e comprensibilità delle sentenze, un ruolo che a volte sembra essere trascurato. Un esempio è il linguaggio non sempre adeguato utilizzato in alcune decisioni giudiziarie, come nel caso del cittadino del Bangladesh accusato di violenza domestica. E alla fine pure assolto – con una senteza incomprensibile. Alla fine Pinelli sostiene che, mentre è fondamentale che la magistratura interpreti e applichi correttamente le norme, è altrettanto cruciale evitare un approccio giurisprudenziale che tenda a crearne di nuove o a disapplicarle, soprattutto in situazioni dove la normativa esistente non è chiara o definita.
Sarà per questo che i giudici hanno chiamato in causa (si fa per dire…!) l’Accademia della Crusca?
Il Consiglio di Stato e l’Accademia della Crusca insieme per un uso più appropriato della lingua italiana nelle sentenze. «Le decisioni del giudice devono essere comprensibili a tutti, grazie a una motivazione chiara e un linguaggio appropriato. Il giudice non deve persuadere, ma dare conto della propria decisione, per questo profili processuali e forme di linguaggio devono stare insieme nella redazione della sentenza, che è la ragion d’essere del giudice», lo hanno sottolineato il Presidente del Consiglio di Stato, Filippo Patroni Griffi, e il Presidente dell’Accademia della Crusca ,Claudio Marazzini, sottoscrivendo l’accordo di collaborazione.
Sì, i limiti del linguaggio rispecchiano i limiti della nostra conoscenza – lo insegna Wittgenstein. Ma quando c’è di mezzo la vita delle persone, la chiarezza, la comprensibilità diventano un imperativo morale, direbbe Kant. Ma siamo sempre nel regno della filosofia. Reati, delitti, vittime hanno bisogno di giustizia – cioè di chiarezza.