MANI PULITE 30 ANNI DOPO: DAL GIUSTIZIALISMO ALL’INGIUSTIZIA (PARTE 2/2)

IL COSTO DELLA GIUSTIZIA INQUISITORIA

Alla base vi era un raffinato ricatto giustificato perfino dalla Suprema Corte di Cassazione. Quest’ultima riteneva che fosse certamente illegittimo ricorrere al carcere per estorcere delle confessioni, ma che, al tempo stesso, era pienamente giustificato liberare le persone coinvolte dopo la confessione, perché quest’ultima avrebbe mostrato una forma di “distacco” dal reato. In sintesi: se parli sei libero. Ma il sistema non si esauriva qui. Di fatti, centinaia di processi si svolsero grazie alle confessioni ottenute dagli indagati senza che i difensori dei nuovi accusati potessero controinterrogare.

Ancor peggio, quei processi si sono conclusi senza la possibilità di analizzare la veridicità e la correttezza delle confessioni e di conseguenza senza l’opportunità di esercitare quel famoso diritto, conosciuto come diritto alla difesa, consacrato dalla Costituzione italiana. Ma la ragione di tutto quel potere nelle mani dei pubblici ministeri aveva una radice storica. Prima dell’entrata in vigore del codice di procedura penale, l’azione dei magistrati doveva confrontarsi con un’altra figura, per poi essere abolita, ossia: il giudice istruttore, che poteva frenare le ricerche investigative. Con l’eliminazione di questa figura, pertanto, ai pubblici ministeri è stata riconosciuta la supremazia nell’avvio e nella gestione delle indagini.

Interessante, se non sui generis, menzionare un episodio che coinvolse il Prof. Ennio Amodio, docente emerito di Diritto Processuale Penale presso l’Università degli Studi di Milano. Il Prof. Amodio aveva cominciato a commentare la “deriva giustizialista” in qualche intervista ai giornali denunciando metodi da Santa Inquisizione, fino a quando non ricevette una telefonata da un “alto magistrato” che lo intimò a smettere. Ma a condannare non erano solo i magistrati, parallelamente anche il ruolo del giornalista subì una trasformazione. Si passò dall’esercitare il diritto di cronaca al “diritto di condanna”. A dimostrarlo, migliaia di articoli che non fanno altro che confermare l’esistenza della c.d. caccia alle streghe, che costringeva gli accusati a collaborare. Infatti, come ammetterà poi anche il PM protagonista dell’inchiesta, Antonio Di Pietro: “Per l’imprenditore la convenienza è soprattutto imprenditoriale. Qual è il suo primo problema quando viene coinvolto? I giornali, la televisione, l’arresto, la confessione, tutto questo produrrà̀ effetti a catena disastrosi per la sua impresa. Le banche ritireranno i fidi, i committenti non daranno più̀ gli appalti, i lavoratori contesteranno, sarà costretto a chiudere”.

 

COSA NON È CAMBIATO

Nulla da celebrare, solo un semplice bilancio dopo trent’anni da quell’inchiesta che avrebbe dovuto distruggere definitivamente la corruzione. Forse sono scomparse le “mazzette”, ma sono stati creati metodi decisamente più innovativi, come finte consulenze e paradisi fiscali. Ma il paradosso è che il medesimo concetto viene ribadito da Antonio Di Pietro: “Non è un giorno di festa. Sono passati 30 anni ma mi pare che aprendo il giornale ogni mattina sia tutto uguale a prima”. Evidentemente non era questo il vero obiettivo dell’operazione.

Quel sentimento di giustizia, di cui la magistratura ha ampiamente abusato, deformandolo, doveva appartenere alla società e per estensione al legislatore. Il principio di non colpevolezza fino a condanna definitiva è stato oscurato e sostituito dalla convinzione che non esistono innocenti, ma solo colpevoli non ancora scoperti e dall’obiettivo di rivoltare l’Italia come un calzino. E qual è stata la conseguenza? Secondo l’Avv. Massimo Dinoia, ex difensore di Antonio Di Pietro e poi di Mario Chiesa (ma non nell’inchiesta Mani Pulite), a livello legislativo è cambiato ben poco, in quanto il sistema giudiziario è peggiorato, il legislatore è intervenuto per inasprire le pene ma nel caso della corruzione non è stato fatto molto per scardinarne il cuore: l’omertà.

 

D’altronde l’Italia è il Paese che “se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi”, scriveva Giuseppe Di Tomasi Lampedusa. Due secoli fa, come gli ultimi trent’anni.

 

Grazie per l’attenzione.