Legalità d’impresa e processo penale: i paradossi di una giustizia implacabile in un caso su dieci

La “cifra oscura” degli illeciti d’impresa non registrati dalle procure documenta l’assoluta discrezionalità del pubblico ministero nell’agire contro l’ente e introduce una variabile del tutto arbitraria che finisce per disincentivare gli investimenti delle imprese in prevenzione.

Il bisogno di una revisione della disciplina

Quando si parla di responsabilità da reato delle imprese, c’è un punto sul quale sono tutti d’accordo: la disciplina varata a inizio secolo, con il d.lgs. 231/2001, deve essere sottoposta a revisione. Le ormai numerose ricerche dedicate all’inedito corpus normativo che ha rivoluzionato lo scenario sanzionatorio infrangendo il tabù del societas delinquere non potest, dimostrano che il decreto ha ormai bisogno di un intervento di manutenzione. Anche e soprattutto all’impianto processuale, dal cui corretto funzionamento dipendono l’operatività, l’affidabilità e persino la credibilità del sistema.

Per essere seria, la discussione sulle prospettive di riforma deve però tenere conto di un dato, che non è stato invece sino ad oggi adeguatamente considerato. Mi riferisco al fenomeno, emergente in modo netto dall’analisi delle statistiche giudiziarie, della sostanziale ineffettività del modello sanzionatorio e preventivo disegnato dal decreto 231 dovuta alla diffusa disapplicazione giudiziale della normativa.

Esiste, infatti, una ingente “cifra grigia” di illeciti che vengono sistematicamente ignorati dall’autorità giudiziaria. E’ davvero impressionante il numero delle pratiche che si “perdono” negli uffici delle procure. Mancate annotazioni degli illeciti, pur a fronte di procedimenti penali avviati per reati che, ex lege, comporterebbero la responsabilità dell’ente. Basti pensare che in un distretto giudiziario come quello di Milano, dove la sensibilità al tema della criminalità economica è, come è noto, storicamente più viva che in altre zone del Paese, la maggior parte delle società sparisce dai radar della procura: solo il 10% – 15% di annotazioni a carico degli enti viene registrato (i dati variano leggermente dal 2015 al 2017, ultima rilevazione disponibile, con un trend stabile). Nell’85%, 90% dei casi, dunque, si procede solo contro il vertice o il sottoposto e si “risparmia” la società, benché questa sia coinvolta nella vicenda.

 

La falsa idea della libertà del PM

L’elusione normativa non dipende dalla mancata emersione dell’illecito o dalla incapacità della macchina giudiziaria ingolfata di smaltire il carico di lavoro.  Si tratta di illeciti noti, messi in evidenza dall’insorgere del procedimento per il reato presupposto, che sarebbero destinati a confluire nel medesimo procedimento, senza, dunque, duplicazioni o appesantimenti eccessivi. E che tuttavia vengono completamente ignorati. Al momento della formalizzazione della notizia del reato, l’ipotesi della responsabilità dell’ente svanisce quasi sempre nel nulla. L’illecito penale viene iscritto nel registro generale, mentre viene omessa l’annotazione prevista dall’art. 55 del decreto: solo in un numero trascurabile di casi l’informazione viene registrata e il procedimento a carico della società viene alla luce. Per la verità, l’art. 55, nel prescrivere come doverosa l’immediata annotazione dell’illecito, vieterebbe alla procura di operare selezioni: tutti gli illeciti andrebbero registrati. Eppure, la prassi inosservante è diffusissima, perché ha finito per attecchire l’idea della sostanziale libertà del pubblico ministero nella scelta se indagare o meno la società. Lo ammette, senza falsi pudori, la Relazione al Bilancio Sociale della Procura di Milano: commentando l’incredibile spread, spiega che «la ragione di fondo è che l’iscrizione della persona giuridica è ritenuta ancora una valutazione discrezionale».

E come avviene questa selezione? Quali sono i criteri sulla cui base si decide di procedere contro un’impresa e non contro le altre? Sono i più disparati. Variano da procura a procura, anzi spesso all’interno dello stesso ufficio, in funzione di parametri imprevedibili: la preparazione dei singoli magistrati, la disponibilità di risorse, la sensibilità del procuratore, la preferenza per una materia (l’infortunistica, piuttosto che la corruzione o il riciclaggio) rispetto ad un’altra.

 

Una giustizia ingiusta

Lo scenario è desolante. Il decreto continua a minacciare con severità e rigore pesanti sanzioni per l’ente e si affida alla giurisdizione penale proprio per garantire l’imparziale applicazione della legge e la massima efficacia dell’attività di accertamento. Ma tutto questo rischia di tradursi in una beffa. Quella stessa giustizia penale, amministrata nelle stanze in cui campeggia il memento “la legge è uguale per tutti”, applica la legge in un caso su dieci, facendo sparire ogni traccia degli altri nove. Quell’enorme “cifra oscura” documenta la clamorosa smentita, nei fatti, della legalità della sanzione e del processo, assicurata solo in apparenza dalle norme. E testimonia il pesante insuccesso della stessa funzione specialpreventiva, illusoriamente assegnata alla giurisdizione penale.

Oggi le imprese italiane – a sentire gli aziendalisti – sono perfettamente consapevoli di quanto siano scarse le probabilità di essere coinvolte in un processo penale insieme al loro esponente che sia imputato; e, fatta eccezione per quelle maggiormente strutturate, difficilmente si impegnano nella profilassi. Ne fornisce la prova Confindustria, da una cui ricerca si apprende che quasi i due terzi delle società intervistate non hanno adottato alcun modello prevenzionistico. Per contro, nelle rare occasioni in cui le società sono imputate, la prognosi di un esito infausto del processo è pressoché scontata, essendo l’asticella della prova che l’ente deve fornire al giudice così alta da risultare quasi sempre insuperabile. Cosicché, anche da questo punto di vista l’efficacia preventiva del sistema rischia di svanire, di fronte alla sostanziale inutilità dell’eventuale investimento organizzativo. Con un ulteriore, paradossale effetto indesiderato: nel mare di “indulgenza” generale, quegli isolati casi in cui invece lo Stato usa la forza finiscono per lasciare in bocca il sapore amaro della persecuzione.

Cosa fare?

Allora, se si vuole recuperare l’effettività dei principi di legalità e di uguaglianza, certamente irrinunciabili anche in materia di sanzioni agli enti, l’intervento più urgente dev’essere proprio quello volto a ripristinare l’obbligatorietà “dimenticata” dell’azione sanzionatoria, introducendo il controllo del giudice (oggi assente) sull’inazione e ribadendo l’assenza di qualsiasi spazio discrezionale al momento dell’avvio delle indagini.

Sul primo obiettivo deve lavorare il legislatore: l’esperienza insegna che l’archiviazione affidata alle mani del solo pubblico ministero, pur non essendo di per sé indice di libertà di azione (non lo sarebbe neppure nell’impianto del decreto), finisce per costituire una tentazione irresistibile per molti. Sul secondo è invece sufficiente che si impegnino le procure della Repubblica, dettando direttive rigorose che non lascino ai sostituti procuratori licenza di (non) iscrivere.

(fonte: DPC)

 

grazie per l’attenzione.