L’inchiesta sulla Fondazione Open può descriversi come un perfetto esempio di fiasco della giustizia. Il procedimento penale costituisce una macchina articolata alla quale lavorano molte persone, ciascuna con la propria professionalità. Malgrado il buon senso suggerisca prudenza non di rado media, addetti ai lavori ed opinione pubblica sembrano ignorarne la natura complicata. E tanti, troppi, dimenticano che si è e si rimane innocenti fino al terzo grado di giudizio. Anzi, talvolta si cerca solo un colpevole, in sete di giustizia e di qualcuno da giustiziare. Accade così che, a suon di intercettazioni private spiattellate sui giornali, campagne create ad arte sui social media e servizi televisivi che cercano lo scandalo a tutti i costi, la notizia di un avvio di procedimento si trasformi rapidamente in una condanna definitiva. Anche senza prove. L’inchiesta ‘Open’, dal nome dell’omonima fondazione, vede attualmente coinvolti Matteo Renzi, Maria Elena Boschi, Luca Lotti, Alberto Bianchi, Marco Carrai e quattro società.
UN’INCHIESTA STRATIFICATA E LENTA
Lunghe indagini, faldoni chilometrici di intercettazioni – di cui ci si domanda sia l’utilità ai fini dell’inchiesta, sia il costo che ha dovuto sopportare l’amministrazione della giustizia per raccoglierle – e poi richieste avanzate dai pubblici ministeri, ordinanze, sequestri, ricorsi, calendari di udienza infiniti e decisioni che si lasciano attendere. Nell’inchiesta sulla Fondazione Open nulla è davvero chiaro. Tutto è stratificato in una mole enorme di atti. Ormai arrivata davanti al giudice per l’udienza preliminare, rappresenta un esempio di quanto articolato possa essere un giudizio. E di come giudici di diversi uffici, chiamati ad esprimersi su una determinata circostanza, possano offrire punti di vista difformi tra loro. Per cui bisogna aspettare il corso della giustizia, confrontare pareri e prove. Tanto più che non c’è ancora la prima udienza in aula. Invece, per qualche giornalista (ma non solo) siamo già arrivati a una verità definitiva.
DOVE SIAMO REALMENTE
Ma facciamo un passo indietro per inquadrare la vicenda nel suo insieme. L’inchiesta verte su una serie di presunte irregolarità nei finanziamenti a Open, la fondazione nata per sostenere le iniziative politiche dell’ex Primo Ministro, Matteo Renzi. Alla base delle contestazioni della procura di Firenze c’è l’equiparazione della fondazione a un partito politico, assunto dal quale deriva l’ipotesi del finanziamento illecito. In altre parole, secondo i magistrati toscani dell’accusa, Open avrebbe agito come l’estensione di un partito ricevendo tra il 2012 e il 2018, in violazione delle norme, somme consistenti che sarebbero state spese anche per l’attività politica della corrente renziana del Pd. Ipotesi ancora lontane dall’essere dimostrate, ma che necessitano di un supplemento di riflessione, considerato che dal momento dei primi sequestri disposti a carico degli indagati, nel 2019, ad oggi, si sono verificati fatti sorprendenti.
I PM INSISTONO TRE VOLTE, SBAGLIANDO TRE VOLTE
La sorpresa, o se preferite l’anomalia, si evince dalle 22 pagine con cui lo scorso mese di marzo la Cassazione ha annullato per la terza volta l’ordinanza di perquisizione e sequestro emessa nei confronti di Marco Carrai. Per usare parole dello stesso Renzi, ‘per l’ennesima volta la Cassazione smentisce i magistrati di Firenze’. Dopo due analoghi annullamenti con rinvio, alla terza occasione i giudici della suprema Corte annullano senza rinvio, sottolineando che “nell’ordinanza impugnata – si legge nelle motivazioni – i finanziamenti in questione sono espressamente leciti, e che il tribunale nel qualificare la Fonazione Open, del quale Carrai era componente del consiglio direttivo, ‘articolazione politico organizzativa del Partito Democratico (corrente renziana)’, non abbia rispettato i principi già affermati dalle sentenze emesse nelle precedenti fasi di questo procedimento e soprattutto non abbia considerato compiutamente la disciplina dettata dalla fondazioni politiche nel testo vigente all’epoca dei fatti”. Parole che gettano una luce diversa sul procedimento in corso e che, senza dimenticare il contesto nel quale si inseriscono e del quale partecipano a pieno titolo, dovrebbero richiamare alla dovuta prudenza tanto i media quanto l’opinione pubblica.
GIP, RIESAME, GUP E CASSAZIONE: TUTTI I GIUDICI DELL’EX PRESIDENTE
Questo perché, mentre la procura ha già chiesto il rinvio a giudizio degli indagati, e il giudice per l’udienza preliminare viene chiamato ad esprimersi in merito (presumibilmente a breve) altri magistrati per la terza volta si sono pronunciati su un aspetto non di poco conto per l’economia del procedimento: la fondazione Open non agiva come partito. Se è chiara la portata di una simile affermazione – e cioè che cade tutto il castello dell’accusa – vale la pena ricostruire i vari passaggi che hanno portato al coinvolgimento della Cassazione e quindi la sua decisione. Semplificando, in un caso simile le cose procedono più o meno in questo modo: il pubblico ministero richiede la perquisizione e il sequestro a carico dell’indagato. Il giudice per le indagini preliminari avalla la richiesta e l’operazione viene eseguita. A questo punto, l’indagato fa ricorso al tribunale del riesame, che respinge l’istanza. L’indagato, viste le circostanze, può ancora ricorrere contro la decisione del riesame, questa volta rivolgendosi alla Cassazione. Qui, per tre volte, i giudici rinviano la decisione al tribunale, che continua a insistere sulla sua posizione. Al terzo ricorso, la Cassazione decide di annullare l’ordinanza di perquisizione e sequestro, senza ulteriore rinvio, motivando come sappiamo. Tutto ciò solamente per decidere su un singolo atto di un procedimento ancora in fase preliminare. Qualcosa da tenere a mente in ogni caso, prima di saltare a conclusioni di qualsiasi genere.
CHE FINE FA IL CONFLITTO DI ATTRIBUZIONE?
Un altro aspetto interessante è quello che riguarda il possibile conflitto di attribuzione che si sarebbe venuto a creare nell’ambito dell’inchiesta. Ad esprimersi al riguardo, su richiesta del Senato che ha sollevato la questione dopo aver messo ai voti la relazione della Giunta delle immunità parlamentari, sarà ovviamente la Corte costituzionale. La Consulta, dovrà prima risolvere il nodo principale. Poi, nel caso venga superato questo primo vaglio, dovrà valutare la faccenda delle chat e delle mail di Renzi messe agli atti dai pm fiorentini. Si dovrà stabilire se, trattandosi di un senatore in carica all’epoca dei fatti, i magistrati fossero o meno legittimati ad operare senza chiedere aver prima chiesto ed ottenuto l’autorizzazione dal Senato.
Poi bisognerebbe anche domandarsi come tutte quelle intercettazioni – da cui non sembra uscire nulla di davvero rilevante e che comunque potrebbero non essere lecite – siano finite nelle mani dei giornali… Ma questa è un’altra storia, un’altra ingiustizia.