La Commissione Europea per l’Efficienza della Giustizia (CEPEJ) pubblica un report nel quale, tra gli indicatori di efficienza dei sistemi giudiziari, figura il disposition time. Per ciascun grado di giudizio, questo indicatore misura il tempo medio di definizione dei procedimenti. È lo stesso indicatore preso a riferimento dalla Commissione Ue ai fini del Pnrr.
Quanto al processo penale, l’impegno assunto con Bruxelles è di ridurre il disposition time, in ciascuno dei tre gradi di giudizio, del 25% entro il 2026. La lentezza dei processi, agli occhi degli osservatori internazionali, è infatti il principale problema che affligge la giustizia italiana.
Bastano pochi dati per capire perché: l’Italia è al primo posto, nel Consiglio d’Europa, per numero di condanne della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per irragionevole durata dei processi (1.230, dal 1959; al secondo posto, doppiata, la Turchia, con 609 condanne), nonché per durata media del processo penale in appello: 1.167 giorni (tre anni e due mesi), contro una media europea di 121 giorni (quattro mesi).
In Italia gli appelli penali durano cioè dieci volte tanto la media europea.
Le cose vanno un po’ meglio, si fa per dire, nel primo grado di giudizio, che in Italia dura mediamente 498 giorni – oltre tre volte la media europea, che è di soli 149 giorni – e nel giudizio di cassazione, che nel nostro Paese dura solo due volte la media europea (237 giorni contro 120).
La riforma Draghi
Per fronteggiare questa emergenza, il Governo Draghi ha varato una riforma del processo penale: la più ampia e trasversale degli ultimi trent’anni. Gran parte della riforma, rinviata nel suo primo Consiglio dei Ministri dal Governo Meloni, è entrata in vigore solo da pochi giorni. Da oltre un anno, invece, è in vigore la parte che è intervenuta sulla prescrizione del reato. Nella passata legislatura quella parte della riforma fu anticipata perché ritenuta urgente: si trattava di correggere la riforma Bonafede del 2019, che con il pur lodevole intento di ridurre l’incidenza della prescrizione del reato in appello (pari al 25%) aveva stabilito il blocco della prescrizione con la sentenza di primo grado, senza però considerare gli effetti di prevedibile allungamento dei tempi nei successivi gradi di giudizio, venuto meno lo spauracchio della prescrizione e, quindi, l’impulso a fare presto per non mandare in fumo i processi. Per questo il Governo Draghi, nel nuovo contesto del Pnrr, ha apportato a quella riforma un correttivo impedendo l’irragionevole durata dei giudizi di secondo e terzo grado.
La soluzione tecnica, innovativa e sfidante, è stata la previsione della improcedibilità per superamento di termini di durata massima di quei giudizi, individuata in due anni, per l’appello, e in un anno, per la cassazione (salva la previsione di un sistema di eccezioni, di proroghe e sospensioni dei termini). Se la prescrizione è un cerino che passa di mano – è colpa di tutti e di nessuno, perché i ritardi possono essere imputati a chi ha tenuto il fascicolo prima – l’improcedibilità è un cerino che brucia tutto in mano ai giudici di appello o di cassazione. È un meccanismo che responsabilizza i magistrati, chiamati dal Pnrr a una sfida epocale, impietosamente messa a nudo dai dati europei.
Si vedono già i primi risultati
L’effetto-nudge dell’improcedibilità è già misurabile: nel primo semestre del 2022 il disposition time è diminuito di circa il 15% in appello e in cassazione. Gli uffici giudiziari si sono già riorganizzati, anche grazie all’apporto di migliaia di giovani addetti all’ufficio per il processo, assunti con fondi Pnrr, e ancora lo faranno, con il necessario supporto del Ministero della Giustizia e del CSM. Per questo preoccupa l’approvazione, da parte della Camera, di un ordine del giorno che impegna il Governo a reintrodurre la prescrizione del reato nei giudizi di impugnazione, tornando al sistema vigente prima delle riforme Bonafede e Cartabia, cioè al sistema in cui sono maturati i dati – le lentezze – che l’Europa ci chiede di migliorare. Prima di tornare al passato, mettendo in cantiere la quarta riforma della prescrizione negli ultimi sei anni, è meglio concentrarsi sul presente e misurare gli effetti di una riforma appena varata, senza dare messaggi di disimpegno. La giustizia penale non può essere trattata come una tela di Penelope. Nel 2019 la riforma Bonafede cancellò la riforma Orlando prima di misurarne l’impatto. L’auspicio è che, nel 2023, non prenda corpo una riforma Nordio che faccia altrettanto con la riforma Cartabia. Errare è umano. Perseverare è diabolico. E l’Europa, questa volta, non ci perdonerebbe.