Le recensioni de “Il Governo dei Giudici” di Sabino Cassese (Laterza, 104 pagine, 12 euro) iniziano molto spesso da questa citazione:
«L’indipendenza è divenuta autogoverno. Familismo ed ereditarietà hanno aumentato separatezza e autoreferenzialità. Ci si attendeva razionalità e si è avuto populismo giudiziario. Ci si attendeva giustizia e si sono avuti giustizieri».
E’ curioso, perché questo libro è firmato proprio da uno dei massimi rappresentanti del mondo giuridico italiano: Sabino Cassese è professore alla School of Government della Luiss e alla Católica Global School of Law di Lisbona. È stato professore nelle università di Urbino, di Napoli, di Roma e alla Scuola Normale Superiore di Pisa. Ha inoltre insegnato alla Law School della New York University e al Master of Public Affairs dell’Institut d’études politiques di Parigi. È stato ministro della Funzione pubblica nel governo Ciampi e giudice della Corte costituzionale. Ha pubblicato, di recente, Governare gli italiani. Storia dello Stato (2014), Dentro la Corte. Diario di un giudice costituzionale (2015), Territori e potere. Un nuovo ruolo per gli Stati? (2016), La democrazia e i suoi limiti (2017).
LA GIUSTIZIA IN ITALIA: UN QUADRO SCONFORTANTE
La situazione della giustizia in Italia è peculiare. Da un lato si assiste a una dilatazione del ruolo dei giudici, dall’altro a una crescente inefficacia del sistema giudiziario. Molti osservatori concordano sul fatto che la magistratura sia diventata parte della governance nazionale; che vi sia una indebita invasione della magistratura nel campo della politica e dell’economia; che in qualche caso la magistratura cerchi persino di prendere il posto della politica, controllando anche i costumi, oltre ai reati, proponendosi finalità palingenetiche delle strutture sociali, stabilendo rapporti diretti con l’opinione pubblica e con i mezzi di comunicazione. In questo contesto, le procure hanno acquisito un posto particolare, tanto che molti esperti parlano di
una ‘Repubblica dei PM’, divenuti un potere a parte, con mezzi propri, che si indirizzano direttamente all’opinione pubblica, avvalendosi della ‘favola’ dell’obbligatorietà dell’azione penale, utilizzando la cronaca giudiziaria come mezzo di lotta politica e trasformando l’Italia in una ‘Repubblica giudiziaria’.
LA “REPUBBLICA GIUDIZIARIA”
Dovrebbe essere una certezza assoluta e invece la giustizia italiana sembra soprattutto un focolaio di polemiche. Da anni ormai c’è continuamente un motivo per cui se ne discute: la lentezza nei processi, alcune sentenze discutibili, l’utilizzo mediatico delle indagini, la separazione delle carriere dei magistrati, gli scontri fra procure della Repubblica e la politica. Senza dubbio tutti argomenti che meritano attenzione. Ma quando le polemiche si susseguono senza sosta e scadono nella rissa si finisce per trascurare quali sono le cause del problema il che rende ancora più difficile pensare lucidamente ai rimedi.
La prima osservazione importante è che non si tratta di un libro di parte. Del resto da uno dei più autorevoli giuristi italiani non ci si poteva aspettare qualcosa di diverso. Così si esce finalmente dal solito schema di guerra per bande che ormai da decenni vede in contrapposizione magistratura e politica oppure faide interne tra i giudici. Punto di partenza dell’analisi di Cassese non è un’opinione ma una desolante constatazione e cioè la crisi di un’istituzione fondamentale della nostra Repubblica. Stando ai sondaggi,
la fiducia degli italiani nella magistratura, che nel 1994 raggiungeva il 66 per cento, nel 2017 era già diminuita al 40 per cento. E, secondo i dati dell’Eurobarometro, l’apprezzamento è ulteriormente sceso al 37 per cento.
Numeri a parte, è comunque un segnale preoccupante della perdita di credibilità del sistema giudiziario.
QUAL E’ LA CAUSA DEL DECLINO?
La causa di questo declino va cercata, innanzi tutto, proprio all’interno della magistratura composta, come scrive Cassese, “da persone mediamente ben preparate ma chiusa in se stessa, corporativa” e di fatto “incapace di far maturare proposte di ordinamento migliori”. È in sintesi la descrizione di un mondo a parte che però contiene al suo interno profonde differenze fra i “molti laboriosi” e i “pochi scansafatiche” e, soprattutto, fra “i molti silenziosi” e i “pochi ciarlieri”. Che ci siano modi diversi di interpretare il ruolo di giudice in teoria non è un problema. Anzi dovrebbe rientrare pienamente nell’indipendenza della magistratura sancita dalla carta costituzionale. I risultati degli ultimi trent’anni dimostrano però che qualcosa non ha funzionato.
Il sistema garantisce l’indipendenza dei giudici attraverso il CSM.
Ma l’indipendenza dei giudici si è trasformata in autogoverno, dove le lotte fra la varie correnti hanno badato più alla spartizione degli incarichi che a tutelare l’autonomia dei giudici.
La politica, ovvero governo e Parlamento, hanno aggravato la situazione con leggi che hanno ampliato all’eccesso le competenze del sistema giudiziario aumentandone non solo il carico di lavoro ma anche, di fatto, la discrezionalità. Né ha giovato la commistione quasi a senso unico fra politica e magistratura perché se è vero che quest’ultima deve essere indipendente è però altrettanto vero che molti magistrati entrano in politica non soltanto in Parlamento quanto o soprattutto nei posti cruciali dell’amministrazione statale. “Il governo dei giudici” mette in evidenza tutto ciò che squilibrato il sistema. E non sarà facile rimetterlo a posto.
Grazie per l’attenzione.